Sullo sviluppo sostenibile persi 50 anni, il suolo mondiale continua a degradarsi

Il modello economico va ripensato in “chiave dinamica”, l’uomo ha già modificato pesantemente l’equilibrio naturale. Stiamo sprecando uno dei beni più preziosi. La cronaca dell’evento nazionale del Goal 6-14-15.

“Qualche giorno fa, stimolata dal libro “Noi siamo natura” di Gianfranco Bologna, ho fatto una ricerca per capire quanta terra smuoviamo noi esseri umani ogni anno. Si tratta di 45 miliardi di tonnellate di terra, equivalenti a 346 milioni di balenottere azzurre oppure a 4 milioni e mezzo di torre Eiffel. Un numero enorme, che supera i 39 miliardi di tonnellate smosse dai fiumi ogni anno. È chiaro che non tutto questo terreno può essere definito ‘suolo’, ma si tratta comunque di un dato che deve farci riflettere. Se mettessimo insieme tutto il terreno smosso nel periodo in cui la nostra specie si è considerata civilizzata, creeremmo una catena montuosa larga 40 chilometri, lunga 100 chilometri e così alta da sfiorare i 4mila metri. Come siamo arrivati a tutto questo?”. Sono le parole con cui Barbara Gallavotti (giornalista scientifica, autrice e conduttrice di programmi televisivi scientifici) ha aperto l’evento nazionale del Festival dello Sviluppo Sostenibile del 10 ottobre dal titolo “50 anni persi, come sta il suolo?, organizzato dal Gruppo di lavoro ASviS sui Goal 6-14-15 (acqua ed ecosistemi marini e terrestri) dell’Agenda Onu 2030 e tenuto al Palazzo Esposizioni di Roma.

 

Durante le due ore di approfondimento, l’evento ha segnalato i limiti raggiunti dall’umanità rispetto allo sfruttamento delle risorse del Pianeta e ha sottolineato l’importanza di agire sulle tematiche ambientali rilanciando, al contempo, l’idea che senza un cambio di paradigma a tutti i livelli non saremo in grado di vivere in un mondo migliore e che, anzi, di questo passo si prospetta ben peggiore di come oggi lo conosciamo. 

Dopo aver dato il via al dibattito, Barbara Gallavotti, ricordando l’importanza di una pubblicazione storica, quella del Club di Roma dal titolo “I limiti alla crescita, ha introdotto l’intervento di Ugo Bardi (già professore di chimica fisica all’Università di Firenze, full member Club of Rome). 

“Con la pubblicazione di ‘Limits to growth’ si è fondata una nuova scienza: l’economia biofisica – ha dichiarato Bardi -. Quello che sosteneva questo volume è che il sistema in cui viviamo si basa su un certo numero di entità fisiche che decrescono in funzione del tempo. Un fatto che avviene sia per quelle non rinnovabili (si pensi per esempio a metalli, petrolio e gas), sia per quelle rinnovabili che vengono sfruttate troppo velocemente, non concedendo il tempo necessario al processo di rigenerazione. Qui si innesta un processo dinamico: calano le risorse naturali e sale il capitale industriale che, a sua volta, produce inquinamento in varie forme. Ne è un esempio la crisi climatica”.

Ma come gestiamo gli elementi del sistema riducendo l’inquinamento? Per Bardi “vanno gestiti mantenendo il capitale, perché senza capitale la società non esisterebbe. Serve un approccio dall’alto, sistemico, che tenga insieme tutto. Posso anche ignorare la CO2 nel sistema, ma questa creerà comunque problemi. Uno strumento utile a ridurre i danni del sistema è l’economia circolare. Sia chiaro, parliamo di un processo non semplice che bisogna pensare in termini strategici. Anche se non risolve tutto, importante è poi il ruolo della tecnologia. Dobbiamo utilizzare tecnologie che non siano inquinanti per mantenere il sistema, in grado pure di fornirci energia. Per fortuna qui qualche aspetto positivo c’è, si pensi a quanto sono scesi i costi delle rinnovabili. In sostanza, sono 50 anni che abbiamo gli strumenti per capire come funzione il modello economico ma siamo in ritardo. Se avessimo cominciato prima oggi non staremmo a questo punto. Va ripensato tutto in chiave dinamica”.


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Come li abbiamo persi questi famosi 50 anni – si conta dalla pubblicazione di “I limiti alla crescita” e dalla Conferenza Onu del 1972 di Stoccolma - l’ha poi spiegato Gianfranco Bologna (presidente onorario Comunità scientifica Wwf, full member Club of Rome) durante il suo intervento. “La situazione in cui ci troviamo è drammatica. Dal Festival dello Sviluppo Sostenibile deve uscire forte il messaggio che non possiamo permetterci di perdere altro tempo. La conoscenza deve essere tradotta in politiche. Abbiamo oggi a disposizione una straordinaria conoscenza scientifica – ha ricordato Bologna -. Il sistema economico dominante ha messo in sofferenza gli aspetti ambientali e quelli sociali. 50 anni sono stati persi non per la scienza ma per le chiacchiere politiche, per l’inazione. Oggi con la nascita di nuove discipline stiamo ragionando sul sistema Terra, sappiamo moltissimo, eppure ancora leggiamo sui giornali articoli irricevibili, che per esempio mettono in discussione il consenso scientifico sulla crisi climatica”.

Bologna ha inoltre affrontato il tema dell’antropocene: “Esiste un nuovo periodo, l’antropocene. Siamo diventati attori del cambiamento globale. Uno studio del 2020 pubblicato su Nature ci dice che la massa prodotta dall’essere umano è pari alla biomassa prodotta dal sistema Terra in 4,6 miliardi di anni. Inoltre, abbiamo fortemente modificato anche gli equilibri della biomassa: i mammiferi sono ora il 36%, mentre il 60% degli animali sul Pianeta è fatto da animali che mangiamo, solo il 4% sono invece selvatici. Se guardiamo agli uccelli, il 70% sul Pianeta sono quelli che mangiamo, il 30% selvatici. Noi ogni anno facciamo fuori qualcosa come 65 miliardi di polli.

Insomma, abbiamo un ritmo insostenibile per i sistemi naturali. Se superiamo quelli che la scienza individua come i tipping point - punti critici che la comunità scientifica consiglia di non superare, per evitare l’innesco di una serie di stravolgimenti ambientali che potrebbero mettere in discussione persino l’esistenza umana sul Pianeta -, non possiamo fare più nulla. E qui entriamo nella disciplina dello Spazio operativo sicuro (Sos): gli scienziati hanno individuati nove aree, sei di queste sono in una situazione molto critica. Non siamo ancora in grado di dire con precisione se abbiamo superato i limiti planetari, ma gli effetti dell’uomo sono chiari ed evidenti”. In conclusione Bologna ha ricordato che per comprendere la sostenibilità dobbiamo essere consapevoli che noi siamo natura: “una consapevolezza distrutta dal sistema economico. Abbiamo bisogno di stare al mondo in modo diverso”.

La seconda parte dei lavori di giornata è stata inaugurata dalle parole di Anna Luise (responsabile della struttura di missione per le tematiche globali e l'Agenda 2030 dell’Ispra - Corrispondente tecnico–scientifico della Unccd) che si è soffermata sulla necessità, per la specie umana, di avere un suolo in salute. “Il suolo è la componente del territorio dove avvengono i processi biologici, chimici e fisici che consentono la vita di vegetali e animali, dell’uomo stesso. Si tratta di uno dei beni più preziosi dell’umanità. Il suolo fornisce servizi ecosistemici: cibo, materie prime, prodotti vegetali per abbigliamento, legno, piante medicinali, e permette la circolazione delle sostanze che generano la vita sulla terra e negli oceani. La buona salute del suolo permette che le foreste possano proteggere gli ecosistemi e far scorrere i fiumi. Ma il suolo si degrada se lo usiamo male. Diventa una sostanza inerte, perde la sua capacità di fornire beni e servizi all’uomo. Un suolo degradato perde per esempio la capacità di sostenere la produzione agricola. È l'attività dell’uomo che sta minando la qualità dei suoli e la crisi climatica rafforza gli effetti negativi”.

Si è poi parlato di degrado. “La desertificazione è il livello estremo di degrado – ha continuato Luise -. Dobbiamo evitare, ridurre e invertire la situazione. Come Ispra abbiamo mappato l’Italia, la situazione vede il 25% del terreno italiano altamente degradato. I fenomeni sono sparsi su tutto il territorio nazionale e non solo nelle zone meridionali, dove la crisi climatica impatta più duramente in termini di aumento medio delle temperature. Quali risposte globali a questa crisi? Esiste la Convenzione sulla desertificazione che mette insieme le condizioni di vita delle popolazioni e degli ecosistemi naturali. Servono scelte di governance ricordando che prevenire è meglio. Anche ‘curare’ ha però la sua importanza e il suo ritorno economico. Basti pensare che mentre 44mila miliardi di dollari sono messi a rischio dal degrado, il ripristino del territorio può creare fino a 125-140mila miliardi dollari, 1,5 volte il Pil mondiale”.

Serenella Sala, vice direttrice Land di Joint research center (Jrc) della Commissione europea, ha invece fatto il punto della situazione sulle iniziative dell’Unione per proteggere il suolo: “La Commissione europea ha lanciato un osservatorio europeo sul suolo, un portale dove si comunicano una serie di conoscenze raccolte nel tempo. Quanto la strategia europea del suolo è in relazione con le politiche principali? Lo Zero pollution action plan cerca, per esempio, di capire come poter minimizzare l’inquinamento, il degrado e la contaminazione. Non dobbiamo infatti dimenticare la straordinaria importanza che rivestono gli organismi presenti nel suolo. Sono loro che ci permettono di svolgere funzioni preziose, come lo stoccaggio della CO2 e la produzione di cibo. Una strategia fondamentale europea per un cibo sostenibile è poi il Farm to fork, e sono da menzionare anche la strategia sulla bioeconomia e la Politica agricola comune (Pac). Insomma, qualsiasi sviluppo economico che abbracci un’agricoltura più sostenibile significa avere un impatto minore sul suolo”. 

Fondamentale è l’applicazione di un approccio basato sulla metodologia del Life cycle assessment per ridurre gli impatti lungo tutto il processo di produzione, uso e dismissione. “Il ciclo vita è ora centrale nelle politiche europee. Con il Life cycle assessment possiamo andare a capire quali prodotti e servizi generano impatti e in quale momento, per capire dove poter intervenire con priorità. Sono stati creati tre strumenti che operano secondo questa logica: l’environmental footprint; la consumption footprint – si tratta di modelli che analizzano come le attività di produzione e consumo impattano sul suolo, e lo fanno anche in Paesi terzi -; e il consumer footprint, che permetterà a qualsiasi cittadino di valutare gli impatti individuali. Metodi in grado di analizzare 16 diversi impatti sull’ambiente, per esempio sul clima, sulla disponibilità d’acqua, sulla creazione di inquinamento. Molti sono collegati alla qualità del suolo: per esempio sul cambiamento climatico possiamo valutare le emissioni gas serra provenienti dal cambio d’uso dei suoli. Dobbiamo passare da una logica territoriale a una collegata al ciclo di vita, per capire e valutare le relazioni di causa ed effetto. E anche per sensibilizzare sul tema”.

Un terzo della superficie del Pianeta disponibile è attualmente destinato a scopo agricolo. Si tratta di un numero enorme che sottrae spazio alla biodiversità. Qual è la sfida per il futuro? “Produrre più cibo con meno terreno, visto anche l’aumento della popolazione – ha commentato Filippo Benedetti (Global soil partnership, Fao) -. La Global soil partnership nasce proprio per promuovere la gestione sostenibile dei suoli. Il suolo deve mantenere dei nutrienti di cui abbiamo bisogno, non deve degradarsi. Per farlo, cerchiamo di coinvolgere tutti e abbiamo bisogno di non disperdere la conoscenza che viene dal passato. Per questo motivo diciamo che l’attività di formazione deve partire dal basso e deve svilupparsi in modo orizzontale. Abbiamo diverse occasioni davanti, come quella di sfruttare l’agricoltura per stoccare nel suolo la CO2, combattendo così la crisi climatica. Un suolo ricco di carbonio organico è, inoltre, anche più produttivo e resiliente. Si tratta di una sfida che gli agricoltori devono vincere, ricordiamo che parliamo di uno dei settori che contribuisce di più in termini di emissioni di gas serra. Abbiamo sviluppato un programma che incentiva la ricarbonizzazione dei suoli, per premiare coloro che riescono ad assorbire più carbonio”.

Benedetti ha concluso parlando di salinizzazione, impermeabilizzazione, recupero dei terreni e minacce al buono stato dei suoli: “Ci sono suoli che possono essere riutilizzati e ridati all’agricoltura sostenibile, che al momento sono fuori uso per lo squilibrio generato dall’attività antropica. Per monitorare la situazione è importante anche mettere a sistema dei laboratori di analisi: se non abbiamo dati certi non possiamo studiare lo stato reale dei suoli”.

L’ultimo intervento conclusivo, che ha tirato un po’ le somme, è stato fatto da Barbara Gallavotti, che ha ricordato: “In questo momento ci troviamo nella fase peggiore del nostro rapporto di specie con la Terra. La nostra sopravvivenza è a rischio e stiamo anche crescendo con la popolazione. Abbiamo le conoscenze scientifiche per capire cosa dobbiamo fare, abbiamo la tecnologia, abbiamo più consapevolezza, abbiamo la convenienza economica. Allora cosa ci manca? Il problema è che siamo nelle condizioni di ‘fare la lampadina’ ma non sappiamo come ‘abbandonare le candele’, non è facile passare da un sistema all’altro. Non ci resta che usare le conoscenze e i meccanismi che ci siamo dati per affrontare la transizione sapendo che il momento più difficile è questo ma che, superato, le cose andranno meglio”. È proprio questa la speranza.

 

di Ivan Manzo

martedì 11 ottobre 2022